• La Cattedrale Gotica

    er lo scalpellino del medioevo la squadra ad angolo retto era strumento di uso più frequente tanto che spesso la si vede rappresentata nelle miniature e negli affreschi. I modelli e le sagome a grandezza naturale erano però ingombranti e costosi e si cercava perciò di farne a meno o ridurne il numero usando metodi geometrici per tagliare le pietre questo spiega la ripetitività dei motivi e la standardizzazione che si notano nelle costruzioni gotiche una stessa sagoma veniva utilizzata per un gran numero di pietre. Le pietre venivano preparate in anticipo direttamente nella cava sagomate e già pronte all’uso. I tagliatori potevano scegliere il blocco più adatto per la pietra che volevano tagliare scartando quelli che avevano dei difetti o riprendendo il taglio di una pietra spezzata.

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      Nella cava si evolve la tradizione di un particolare tipo di scalpellino: dovendo sagomare nella cava le pietre già pronte per il trasporto e la messa in opera per garantirne la rigorosità e la precisione, lo scalpellino firmava con un glifo suo personale, ciò garantiva che la pietra potesse essere messa nella sede a lei destinata (secondo la tradizione da ciò deriverebbe il massone del marchio). Numerosi fattori contribuirono alla prefabbricazione e alla standardizzazione che è stata fin qui constatata sui monumenti in particolare sugli archi e le volte. I montanti delle finestre ad esempio erano tutti della stessa sezione anche quelli a quattro arcate.  Bastava quindi una sola sagoma per il taglio di tutte le pietre di una lancetta. La cattedrale di Chartres ha il rosone sud composto di settantadue pietre meticolosamente tagliate con solo sei sagome. Il grande Villard de Honnecourt ha lasciato disegni di un rosone di 216 elementi realizzabile con solo 5 sagome. La cattedrale proprio per quanto ricordato, è da considerare il trionfo della squadra e del compasso. Una volta che la costruzione era terminata bisognava verificarne la correttezza e bisognava periodicamente controllare che non ci fossero cedimenti delle strutture e del terreno. L’abilità dell’architetto muratore si misurava anche con la perizia nei controlli di stabilità. Grande importanza simbolica era data a questa fase del lavoro perchè la simbologia del perfezionamento de maestro muratore trova qui la sua più alta simbologia. Ricordiamo che nel medioevo un certo numero di edifici religiosi è crollato e non a causa di incendi o guerre; questi crolli erano dovuti all’imperizia degli architetti che desideravano costruire edifici sempre più audaci e all’empirismo dei metodi di costruzione, la cattiva qualità dei materiali e l’ignoranza dei problemi causati dal vento. Tra le più memorabili ricordiamo il crollo della torre della cattedrale di Sens nel 1267, la guglia Sainte Bènigne di Digione nel 1272, la volta della cattedrale di Beauvais nel 1284 la più alta di tutte. Uno dei problemi fondamentali che gli architetti dovevano affrontare era quello dell’appiombo (l’intersezione con il suolo della verticale che passa per un punto). Bisognava trovare il centro della volta, ora in mancanza di vento è impossibile controllare l’appiombo di una guglia che si trova arretrata rispetto alla facciata o di un elemento sospeso nel vuoto e quindi inaccessibile come la chiave di volta.

      Ogni difetto di verticalità in una di quelle guglie o nell’appiombo di una volta costruita a più di quaranta metri dal suolo poteva avere conseguenze gravissime. Era dunque essenziale per gli architetti di quest’epoca poter verificare la tenuta delle loro costruzioni man mano che queste raggiungevano altezze vertiginose ed in seguito poter verificare la tenuta di una costruzione sul quale si avevano dei dubbi. Per capire quale metodo venisse usato andiamo a curiosare negli appunti di Villard de Honnecourt. Questo insigne architetto del XIII¡ secolo contravvenendo alla regola che imponeva di non scrivere i segreti dell’arte ha annotato numerosi progetti disegni e schizzi, che dovevano servire per uso personale.

      Parte di questo materiale è andato disperso, ma a noi sono giunti molti disegni raffiguranti in maniera allegorica la soluzione dei vari problemi.

      In una delle sua tavole più note recante il n¡ XLVI egli raffigurava un albero con i rami sprovvisti di foglie in cui un solo frutto -una pera (popolarmente il sasso è chiamato pera, per estensione un peso) pende dall’albero e tre mire, la cui parte mediana è allargata sono disposte verticalmente intorno all’albero una è sovrapposta al disegno e ne da una rappresentazione molto dettagliata: puntelli-mira rivelano che erano dotati nella parte rigonfia di una apertura davanti alla quale pendeva un filo a piombo che permetteva di verificarne la verticalità dello strumento. Sotto la pera sono disegnati al suolo due tratti in croce. Le istruzioni che accompagnano questo disegno sono enigmatiche: si metta un uovo sotto la pera, in modo che la pera cada sull’uovo.

      La pera è di fatto l’illustrazione del punto inaccessibile di cui si desidera determinare l’appiombo, materializzato dalla caduta verticale sull’uovo che dovrà trovarsi nell’intersezione dei due tratti disegnati al suolo. Questo è il procedimento della misurazione a vista semplice e preciso al quale è indispensabile ricorrere quando non si può utilizzare il filo a piombo. Per le proprietà degli enti geometrici fondamentali diciamo che per un punto e una retta può passare un solo piano e che l’intersezione di due piani verticali è una retta verticale. Osserviamo allora la pera del disegno (il punto) aiutandoci con due mire verticali (le due stecche di legno); ciascuna delle due misurazioni a vista determina un piano verticale; l’intersezione di questi due piani è la retta verticale che passa per la pera. Questa retta corrisponde alla traiettoria della pera quando si stacca dall’albero e la sua intersezione con il suolo sempre nel disegno è indicata dai due tratti in croce cioè l’intersezione delle due cordicelle che venivano tese ad ogni misurazione a vista tra due mire. La terza mira che compare nel disegno indica probabilmente la misurazione a vista effettuata per controllo, come sono soliti fare i geometri infatti, con tre misurazioni a vista raramente si ottiene un punto ma, in generale, si ottiene un triangolo tanto più piccolo quanto più le misurazioni sono precise. Con questo procedimento si poteva essere certi di dove cadeva l’appiombo del punto inaccessibile e questo senza piombo e senza livella.

      Così nel corso della costruzione un architetto, poteva verificare se la chiave di volta di una crociera o della cima di un pilastro o della cima di una guglia erano in appiombo al centro come previsto dal progetto. Grazie a verifiche di questo tipo si potevano indicare i rimedi da apporre alle costruzioni che perdevano l’appiombo o che si deformavano. Talvolta in tali casi si aggiungevano gettate di archi rampanti come è avvenuto con la cattedrale di Chartes. – Questo centro della costruzione così importante per la stabilità e la solidità del tempio, per analogia ci ricorda un altro centro quello dal quale un maestro muratore non può errare – Pochi semplici strumenti: uno scalpello, un maglietto, un filo a piombo, un compasso ed una squadra hanno permesso di costruire queste meraviglie che ancora ci stupiscono. Non sappiamo dove comincia il simbolismo e dove finisce la tecnica certo è che gli strumenti usati sono stati idealizzati. Come per il guerriero crociato la spada ricordava la divinità e davanti la quale egli pregava infiggendola nel terreno avendo la forma di croce. così per lo scalpellino medievale la squadra ed il compasso e gli altri strumenti sono diventati qualcosa di più di comuni oggetti materiali sconfinando nel divino e nel sacrale. Questi semplici oggetti con il loro angolo retto, con il filo a piombo che indicava l’asse del mondo, ed il compasso con i gradi che potevano aprire sembravano estendere la loro influenza fino alle stelle del cielo anch’esse aristotelicamente sottoposte alle regola della geometria, in quei tempi vissuta come una scienza mistica, poche regole semplici ma universali quelle del “così in alto così in basso”.

      In conclusione nelle pieghe dell’arte muratoria medievale e nei rarissimi scritti degli architetti gotici che sono i precorsi della massoneria prima operativa e poi speculativa troviamo simboli esoterici importanti che ritroviamo nei nostri rituali che sono la chiave per iniziare un cammino simbolico che con il pretesto di semplici strumenti materiali: una squadra, un compasso, uno scalpello, un maglietto, un filo a piombo, di realizzare ciò che è all’esterno di noi, ma soprattutto ciò che è dentro di noi perchè il massone è soprattutto un architetto costruttore di uomini.

  • Il Pantheon

    a cupola come forma architettonica nasce in Oriente precisamente in India molte migliaia di anni fa, gli antichi romani tuttavia sono arrivati a costruirla in epoca più tarda e probabilmente in maniera completamente indipendente. La cupola romana come noi la conosciamo si evolve mediante l’applicazione delle tecniche costruttive etrusche dell’arco e della volta. La vera rivoluzione fu però l’utilizzazione della malta, questo materiale usato successivamente in tutta l’Italia centrale, gettato su un’armatura lignea, formava una copertura compatta e resistente, proprio quello che serviva per modellare tutte le strutture architettoniche apparse in seguito. Inizialmente le cupole erano costruite per coprire i corpi circolari di una sala termale o, come nel Tabularium (78 a.C.), vani quadrati. In seguito per coronare sale ottagonali. In epoca imperiale, soprattutto con Adriano, gli architetti cominciarono ad alleggerire le masse e a concentrare le spinte e le gravitazioni in alcuni punti con nervature e archi di scarico, inserendo nell’impasto ciottoli di pomice per ottenere un peso minore oppure scaricando le forze con archi e absidi, (confrontare gli scritti di Vitruvio). I Romani si impadronirono rapidamente di questa tecnica costruttiva usata soprattutto nei grandi edifici pubblici e forme diverse, emisferica nel Pantheon, a cono della tomba di Cecilia Metella, I templi circolari erano dedicati a Nettuno dio del mare ed erano chiamati ninfei e la cupola sembrava la la copertura ideale del resto anche le terme erano dedicate al culto dell’acqua in queste due costruzioni gli architetti si sbizzarrirono volentieri flettendole in originali sezioni concavo-convesse, come nelle terme di Pompei in varie tombe sempre di Pompei. Gli architetti di questo periodo creavano volte a conchiglia o a spicchi o a ombrello, in cui gli spicchi del padiglione si approfondiscono in vele concave, come nell’Aula delle Terme di Diocleziano, ora adibito a Planetario. Negli Horti Sallustiani o nel Serapeum di Villa Adriana gli spicchi a vela si alternano invece a spicchi a semplice curvatura emisferica. In un’aula ottagonale delle piccole terme della stessa villa la convessità dei quattro lati prosegue nella cupola, la cui superficie interna viene gradualmente ondulata. Altro esempio famoso era il “Ninfeo” della villa dell’imperatore Licinio Gallieno (253-268 d.C.), poi trasformato in una sala di terme in epoca costantiniana, oggi Tempio della Minerva Medica straordinaria costruzione la cui concezione spaziale e strutturale fu modello per le cupole rinascimentali e barocche. Ma torniamo al Pantheon esso fu costruito da Marco Vespasiano Agrippa, genero di Augusto, tra il 27 e il 25 a.C.

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      Prima del rifacimento di Adriano l’edificio era stato restaurato una prima volta sotto Domiziano a causa di un incendio nell’ 80 d.C., e una seconda volta nel 110 d.C. da Traiano, ma fu Adriano, come si è accennato, a ricostruirlo dalle fondamenta e ad aggiungervi la cupola, evitando tuttavia di attribuirsene il merito come testimonia l’iscrizione di Agrippa sull’architrave, dove si può leggere oggi ancora in lettere bronzee ricollocate alla fine del secolo scorso sui fori originali: “M. Agrippa L.F. cos tertium fecit”? (Marco Agrippa, figlio di Lucio console per la terza volta fece). D’altronde è notorio che sebbene Adriano innalzasse dappertutto un numero infinito di edifici non ne segnò mai nessuno col suo nome tranne il tempio dedicato al padre Tiziano. il Pantheon ai tempi della Roma antica appariva in una prospettiva diversa più imponente della nostra innanzi tutto era sopraelevato e situato in fondo di una vasta piazza rettangolare che giungeva fin quasi all’attuale chiesa della Maddalena, era circondata da un portico anch’esso sopraelevato, e vi si accedeva attraverso cinque gradini. Oggi il piano della piazza della Rotonda è stato rialzato la piazza è più piccola di quella originale e questo riduce lo slancio delle colonne di granito grigio mettendo in risalto il secondo timpano dell’avancorpo, e dando a tutta la struttura un aspetto più tarchiato. L’interno colpisce intensamente il visitatore: il suo largo spazio circolare, la cupola emisferica a cassettoni, il foro al centro (l’Oculus) tutto concorre a dare l’impressione di trovarsi al centro del cosmo.

      Questa sensazione è fortissima specialmente in quelle mattine estive in cui la penombra del tempio, che lo ricordiamo non ha finestre, è rotta dalla colonna di luce che penetra dal foro centrale perpendicolarmente come un gigantesco riflettore che proviene direttamente dall’alto dei cieli.

      Difficile non provare ora la sensazione che il centro in cui si apre l’Oculus non sia una vera e propria porta che conduce a una dimensione ultraterrena e metacosmica. Questo era probabilmente quello che i costruttori volevano suscitare.

      Questo perchè la stessa struttura con le sue forme geometriche elementari era già simbolo, la semisfera, l’ottagono, il quadrato, il piano su cui tutto era poggiato. Per gli antichi la terra era piatta su di essa gravava la volta celeste. La cupola del cielo stellato simboleggiava l’espansione-manifestazione dell’Uno nella pluralità dei vari “astri” o “dei” o “potenze” che esprimono le relazioni con le creature. Ma torniamo alla storia: Dopo il Concilio di Nicea (325 d.C.) cominciò la repressione contro la religione pagana, ad opera degli imperatori cristiani e che proseguì ben oltre la controriforma. A parte la parentesi dell’imperatore Giuliano detto “L’apostata” fratellastro di Costantino che rifiutò il cristianesimo per convertirsi al neoplatonismo ed essere iniziato ai misteri eleusini, egli privò il clero cristiano dei suoi privilegi e proclamò la tolleranza verso ogni religione. Escludendo questo fenomeno isolato però, tutti i templi pagani erano stati distrutti o riconvertiti in chiese anche il Pantheon venne chiuso al culto nel 399 da Onorio Flavio. Nel 608 venne donato dall’imperatore Foca a papa Bonifacio IV, che il 13 maggio del 609 lo dedicò alla Vergine e a tutti i santi deponendovi le ossa di un gran numero di martiri raccolte nelle catacombe, e chiamandolo “Santa Maria ad Martyres”. Il giorno della consacrazione divenne durante il primo medioevo la celebrazione cattolica di tutti i santi, sostituita nel 1475 dal 1 Novembre attuale festa di Ognissanti per cristianizzare il Capodanno celtico che cadeva in quella data e venne imposto a poco a poco in tutta l’Europa.

      Con la cristianizzazione dell’impero la cupola venne adottata fin dal quinto secolo negli edifici religiosi bizantini, come ad esempio nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, in S. Apollinare in Classe o nel battistero di Soter a Napoli. Lo schema non era più quello del Pantheon ma la struttura tradizionale e universale del cubo più o meno allungato sormontato da una cupola. A Roma invece la cupola venne applicata nel medioevo prevalentemente a Oratori, Martyria e Battisteri, e soltanto col Rinascimento sarebbe ricomparsa sulle basiliche e chiese. La cupola del Pantheon è comunque ancora oggi la maggiore esistente (m. 43,30 di diametro) perchè quella di San Pietro ha un diametro di m. 42,52 e quella di Santa Maria del Fiore a Firenze di m. 41,47. La sezione della rotonda del Pantheon è un cerchio perfetto di cui la metà è occupata dal cilindro e l’altra metà dalla cupola con una proporzione tipica dell’arte romana perchè la si ritrova già nella sala termale di Baia e nel ninfeo di Domiziano, ora chiesa di S. Maria della Rotonda in Albano. Nel simbolismo tradizionale la struttura della cupola su un cubo allude al passaggio dall’unità – di cui l’emisfero è come un prolungamento, un’espansione – alla quadratura attraverso la mediazione costituita dal triangolo degli sguanci: la stessa struttura della piramide egizia e del pyramidon, la parte superiore dell’obelisco, a significare la manifestazione dell’essere nella caverna cosmica; e inversamente il convergere degli esseri nell’essere non manifesto, nell’uno. Talvolta il passaggio dalla cupola al quadrato è mediato da un ottagono, oppure è una base ottagonale a reggere la cupola, come nei battisteri, a simboleggiare il mondo intermedio. Non è un caso che la forma ottagonale è tipica dei battisteri perchè sono luoghi ritualmente di transizione, di passaggio; tant’è vero che, come ha osservato Renè Guènon, il battistero era nei primi secoli situato fuori della chiesa, e soltanto chi aveva ricevuto il sacramento era ammesso nel tempio. ” Va da sè” soggiungeva ” che il fatto che le fonti siano state in seguito trasportate nella chiesa stessa, ma pur sempre vicino all’entrata, non muta nulla del loro significato”. Nelle cupole medievali l’Oculus era sostituito spesso dalla pietra angolare, ovvero da quella che si trova al vertice della cupola e simboleggia nel cristianesimo il Cristo come diceva san Paolo: – ” e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù “. Per questo motivo forse sulla sommità delle cupole è affrescato il Cristo in gloria sull’arcobaleno o sulle nuvole, circondato da angeli, serafini, santi. R. Guènor osserva ancora che “se a un edificio orizzontale si aggiungerà una parete semicircolare che sarà posta a una delle estremità, a questa verrà attribuito una corrispondenza celeste per una specie di proiezione sul piano orizzontale di questo lato che è anche quello cui viene la luce, cioè l’oriente. L’esempio è naturalmente un’abside semicircolare. Con il tempo il buco al centro della cupola “l’Oculus” è stato sostituito da un “ombrello” la “lanterna” che non interferisce nella struttura o nel simbolismo ma copre l’apertura al centro della cupola permettendo la luce di penetrare dall’alto e riparando l’interno dalla pioggia.

      Essa è tipica delle chiese rinascimentali e barocche, simbolicamente coronate dalla croce, come ad esempio la cupola per eccellenza, quella di San Pietro sotto la quale è posto giustamente, da un punto di vista simbolico. L’altare centrale, vero e proprio Omphalos, dove l’Asse Cosmico collega cielo e terra come un ponte o un albero che permette di passare da una dimensione all’altra: che altro non è se non il Cristo come creatore e redentore.

      Si rifletta sulla struttura stessa della basilica dove la pianta a croce altro non è se non la proiezione terrena della croce tridimensionale, simboleggiata dall’Oculus della lanterna. All’incrocio dei bracci di questa croce terrena è posto l’altare del sacrificio eucaristico. Di questo simbolismo erano consapevoli gli architetti rinascimentali e barocchi o chi li ispirava perchè in molte basiliche l’altare e centrale e sotto la cupola. Con la controriforma questa sistemazione venne giudicata non idonea, perchè non era sufficientemente sottolineata la separazione gerarchica tra chiesa e fedeli, il “Sacrificio Eucaristico”, poteva sembrare una semplice assemblea di fedeli. Si preferì allora evitare qualsiasi equivoco riportando l’altare maggiore nel braccio di fronte all’entrata secondo lo schema delle chiese senza cupola, nelle quali invece esso aveva una collocazione giusta da un punto di vista simbolico. Tornando all’ “Oculus”, in ogni tradizione simboleggia il Sole come “porta” fra l’universo manifestato e l’Uno. Nella tradizione induista spiega Ananda K. Coomaraswamy, si attribuiscono al sole sette raggi simbolici, i primi sei compongono la Croce tridimensionale di Luce spirituale, che crea e allo stesso tempo sostiene l’universo, il settimo invece “passa attraverso il Sole”, e giunge fino ai mondi di Brahma, là dove nessun sole splende (perchè tutto ciò che è sotto il Sole è in potere della morte, e tutto ciò che ne è al di là è immortale); e di conseguenza in ogni diagramma esso è rappresentato dal punto in cui gli elementi della croce tridimensionale si intersecano.

      Sicchè il Sole non è soltanto l’architetto dello spazio, ma anche il liberatore di tutte le cose che in esso risiedono, permettendo loro di sfuggire alla spazialità attraverso il cosiddetto “settimo raggio del sole” che passa attraverso l’Oculus della cupola.

      Ananda K. Coomaraswamy, citando il “Rig Veda”, attribuisce tutto questo, cioè l’ispirazione della cupola e la creazione dello spazio alla Divinità stessa o in alternativa a una triade di divinità architetti, nel senso che questi ultimi rappresentano insieme le tre dimensioni dello spazio, e sono dunque le “potenze” la cui operazione è indispensabile all’estensione di un qualsiasi “campo” nelle quattro direzioni. Infatti solo mediante le tre dimensioni L’uno originario può diventare quattro, numerosi testi sanscriti affermano allegoricamente che il Sole è la porta del mondo (loka-dvara) che ammette in Paradiso il saggio, ma costituisce una barriera per l’ignorante. Il centro del Sole è chiamata la fenditura del cielo, con i raggi che ricordano il mozzo della ruota, è attraverso di esso che si giunge alla “liberazione completa” (nirvikalpa samadhi). In conclusione voglio ricordare che la cupola ha evocato frequentemente nella cristianità la Gerusalemme celeste quasi che essa rispecchiasse quella posta di là dai cieli visibili, di là dall’Oculus.

  • L’Abbazia di Fossanova e la Cattedrale di Nostra Signora

    uando osserviamo la Cattedrale della Abbazia di Fossanova noi osserviamo la più perfetta applicazione del pensiero di San Bernardo di Chiaravalle. Ho premesso nel titolo che la cattedrale si chiama di Nostra Signora, Notre Dame nella intestazione originale, perchè questo era un ordine perentorio di San Bernardo: ” E’ stabilito che tutti i nostri monasteri e le nostre chiese debbano essere dedicati in onore della Regina del cielo e della terra”. San Bernardo è noto per tre grandi cose, la rifondazione dell’Ordine Cistercense, la fondazione dell’Ordine Templare, e la concettualizazione della dimensione interna della chiesa come luogo mistico al di fuori del tempo e dello spazio. Una architettura divina dove lo spazio doveva essere lo spazio dello spirito, la costruzione di un tempio era una impresa sia materiale che spirituale, con la convinzione che la stessa pianta dell’edificio fosse tracciata da Dio. Il costruttore di cattedrali cercava in ultima analisi la via d’unione con Dio nella perfezione del proprio mestiere. La caratteristica saliente dell’architettura bernardiana e gotica in genere, non consiste nelle sculture o nei dipinti, ma nell’uso della luce mirata e nell’armonia degli elementi su cui poggia la struttura architettonica, costruita a partire da una misura espressa in formule geometriche. Gran parte di questa teoria era stata ripresa fino al secolo XII dal trattato “De Musica” di Sant’Agostino, che faceva eco, a sua volta, al misticismo pitagorico e neoplatonico, radicato su principi geometrici e numerici, e San Bernardo, insieme ai membri della scuola di Chartres è un portavoce autorevole del pensiero agostiniano. L’influsso esercitato da Bernardo  è presente non solo sull’architettura, ma su ogni manufatto artistico cistercense. Possiamo quindi parlare di una estetica bernardiana, anche se a prima vista, l’arte dei cistercensi sembra povera e disadorna, tuttavia, ad un attento esame essa risulta fortemente simbolica.

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      chiarezza e semplicità di rapporti geometrici. La novità dell’architettura cistercense, codificata da Bernardo e comunemente denominata Pianta Bernardiana, nei confronti di quella monastica in genere, consiste nella distribuzione dello spazio puro come un cristallo e razionale come un solido geometrico. Una ipotesi che è stata varie volte presentata è che gli spazi dell’abitato monastico cistercense dipendano dalla descrizione della Gerusalemme celeste, come risulta nei capitoli 21 e 22 dell’Apocalisse di Giovanni. Schematizzando al massimo la Gerusalemme giovannea si presenta con due caratteristiche fondamentali: la città preziosa e la città quadrata e misurata. E’ possibile confrontare l’abbazia cistercense con gli elementi emergenti della città quadrata e misurata. Le caratteristiche (o il codice progettuale) della Gerusalemme celeste sono:

      • L’angelo con la canna d’oro per misurare la città (Ap. 21,15);
      • Le mura di cinta della città (Ap. 21, 17);
      • La città quadrata e cubica (Ap. 21, 16);
      • I basamenti (Ap. 21, 14);
      • Il fiume d’acqua viva al centro (Ap. 22, 1 e 3);
      • I numeri ricorrenti: tre, quattro, dodici e loro multipli.

      Naturalmente questo discorso va visto come ispirazione anche perchè non possiamo riprodurre le identiche dimensioni, materialmente improponibili, della descrizione letterale di Giovanni, ma è importante considerarne i simboli di cui essa è portatrice: forma, misura e numeri.

      Ma torniamo alla cattedrale, se guardiamo la chiesa dell’abbazia notiamo alcuni particolari interessanti: la sezione è uguale alle grandi cattedrali gotiche francesi e la sua struttura come quest’ultime è costruita non a mattoni ma a blocchi di pietra levigata squadrata dagli scalpellini al di fuori del recinto sacro secondo la tradizione del tempio di Re Salomone, ed assemblati all’interno della chiesa senza usare oggetti di metallo. Ogni blocco veniva scolpito dal muratore, glifato con una sigla propria dell’artefice e poi assemblato come i mattoncini delle costruzioni dei bambini, quasi senza calce tanto erano precisi. Lo stesso sistema costruttivo fu usato nella costruzione delle cattedrali gotiche ma qui si dovette ricorrere all’artificio degli archi rampanti perchè la pietra arenarie con cui erano fatte non reggeva al peso del carico essendo più friabile. Non dobbiamo dimenticare il rosone che è la parte migliore della costruzione. La chiesa è orientata da est ad ovest ed il rosone proietta la sua luce migliore verso sera quando i raggi del sole che tramonta illuminano l’abside producendo un bellissimo effetto di luce e si può apprezzare quello che diceva San Bernardo quando affermava che la chiesa doveva essere costruita con lo spirito, la pietra, e la luce. L’altra cosa importante fatta da San Bernardo è quella di fondare l’Ordine dei eTemplari.

      Questi monaci guerrieri erano presenti a Fossanova ma nel periodo in cui l’Abbazia fu costituita non avevano ancora ottenuto il riconoscimento papale cosa che ottennero due anni dopo, per cui il loro nome non figura nei documenti conventuali ed erano citati solo come conversi. Infatti i conversi che si trovavano nell’abbazia non erano laici che si occupavano del lavoro manuale ma soldati impiegati in compiti di difesa. Infatti nella strutturazione iniziale l’abbazia era fortificata, la chiesa era utilizzata solo dai membri interni, ed era presenti feritoie di difesa ancora visibili a destra dell’ingresso dell’abbazia. Proprio la presenza templare è il fulcro del “Giallo” di Fossanova, di che si tratta? Per prima cosa un decreto papale decide della costruzione dell’Abbazia. Poco dopo la costruzione Federico Barbarossa fa una grossa donazione al cantiere, il che è singolare perchè si trattava di una località apparentemente priva di importanza e il Barbarossa non faceva niente per niente.

      Dopodichè numerosi personaggi cominciano ad elargire oboli in quantità quasi ad acquisire un merito, fino al momento in cui Federico II, nipote del Barbarossa fa anche lui una donazione e pretende che venga sostituito il portale centrale e chiusi i laterali. Il portale viene fatto uguale a quello di Castel del Monte e le decorazioni “cosmatesche” sul timpano riportano a mosaico una squadra e un compasso. In tutto questo viene sostituita l’architrave che riportava il nome del nonno e la dedica a lui fatta. In tutto questo entusiasmo di donazioni la Abbazia continuava a non accettare ospiti per cui entrambi gli imperatori dovettero essere ospitati a Casamari.

      Nel 1274 San Tommaso d’Aquino in viaggio per il concilio di Lione fa una deviazione e anzichè passare per la strada principale passando per Casamari, devia e si fa ospitare a Fossanova, è vecchio e malato, morirà dopo pochi giorni. Ora a noi sorge la domanda: cosa era custodito a Fossanova di così importante? Cosa c’era da meritare tanta attenzione, per cui imperatori facevano munifici lasciti e santi desideravano di finire i loro giorni li accanto, purtroppo non lo sappiamo, possiamo fare solo delle ipotesi, perchè ciò che non è provato è solo un ipotesi. La principale è quella che dice che l’abbazia fu costruita per una destinazione ben precisa. la custodia dell’Arca della Alleanza. Quando i primi cavalieri templari arrivarono a Gerusalemme si fecero assegnare uno spazio apparentemente senza importanza quella che ora viene chiamata la spianata delle moschee cioè lo spazio su cui sorgeva il tempio di re Salomone. Immediatamente dopo cominciarono a scavare nel sottosuolo dove anticamente c’erano dei cunicoli e delle gallerie, i lavori furono imponenti infatti ancora adesso sono visibili le grandi sale che costituiscono quelle che vengono impropriamente chiamate cave ma che cave non sono perchè la pietra che ne fa parte è gialla mentre Gerusalemme è costruita con una pietra rosata, per cui ne deduciamo che non si tratta di materiale da costruzione. Del resto si è sempre detto che gli ebrei durante l’assedio di Gerusalemme da parte dei babilonesi prima e dei romano dopo nascondessero il tesoro del tempio nei cunicoli sottostanti.

      Dunque i templari cercarono e trovarono l’Arca e la portarono in Francia, ma San Bernardo riteneva che dovesse essere nella sede della cristianità, Ma Roma fu per lui una grossa delusione la trovò corrotta ed infida lo dice lui tesso nei suoi scritti, per cui decise che dovesse essere il più vicino possibile alla capitale, ma nche protetta dalla corruzione e si decise per Fossanova un luogo ad una giornata di cavallo da Roma ma al centro di una zona paludosa e quindi ben protetta sia dal mare che da terra. Guarnigioni templari inoltre erano dislocate nei comuni vicini, e la zona molto fertile avrebbe in ogni caso assicurato la sussistenza delle persone che vi abitavano. Questo spiega il viavai di imperatori e di grossi personaggi che venivano apposta in questo luogo appartato e fuori dai normali percorsi. Facciamo adesso una rapida carrellata sulle varie parti della abbazia. La chiesa cistercense in questo periodo e nei secoli immediatamente successivi è riservata solo ai monaci. Perciò il corpo longitudinale è diviso in due parti: quello verso il transetto è riservata ai monaci ed in questa sezione è collocato il coro. A metà della navata centrale è inserita una balaustra dove sono appoggiati i banchi per gli infermi. L’altra sezione, verso la facciata è destinata ad accogliere il coro dei fratelli conversi.

      Nella retrofacciata, sono addossati i banchi per i conversi infermi. Oltre il portone sulla facciata, vi sono cinque porte con precise funzioni.

      Il transetto ne ha tre: una sulla parete sinistra, la “porta dei morti” che immette nel cimitero, le altre due sul lato destro, una introduce nella sagrestia e l’altra che mette in comunicazione la chiesa con il dormitorio dei monaci attraverso una scala, la quarta, all’altezza del coro dei monaci che permette l’accesso al chiostro; Infine, nella prima campata della navata laterale di destra, la porta di accesso in chiostro dei conversi. Il chiostro.

      Il termine chiostro, (dal latino claustrum, luogo chiuso) indica il cortile interno di un monastero, compreso tra la chiesa e i vari fabbricati monastici dei quali costituisce l’elemento di comunicazione e di disimpegno, cinto di porticati. questo spazio quadrato, è il centro della stessa abbazia. Il chiostro è addossato alla parete della navata laterale destra (Sud) della chiesa. Dal chiostro si accede a tutti gli altri spazi riservati alla vita dei monaci: chiesa, sala capitolare, parlatorio, sala dei monaci, calefactorium, refettorio, cucina e dormitorio e ad Ovest all’ala riservata ai fratelli conversi è costruito in pietra.

      Nel chiostro i monaci si riuniscono prima e dopo i lavori, vi formano le processioni nelle maggiori solennità dell’anno liturgico. Nel chiostro, al termine di ogni giornata l’intera comunità si ritrova per la lettura spirituale prima del canto di Compieta. Il lato destinato all’ascolto della lettura è quello lungo la galleria Nord, fornito di un sedile in pietra. La sala capitolare “Tutte le volte che in monastero si devono trattare questioni importanti, l’abate convochi tutta la comunità, ed esponga lui stesso di che si tratti e udito il consiglio dei fratelli, consideri la cosa dentro di se, e faccia quel che giudicherà più utile, è per questo che abbiamo detto di convocare tutti a consiglio, perchè spesso è al più giovane che Dio rivela la decisione migliore” … “Se infine si tratta di affari del monastero di minore importanza, ricorra semplicemente al consiglio degli anziani, come è scritto: fa tutto con il consiglio e alla fine dell ‘azione non ti pentirai”, (Regola, Cap. III). Da quanto detto si vede come il capitolo monastico rappresenti un momento in cui viene dato a ciascun monaco il diritto di esprimere liberamente il proprio parere su tutte le questioni che riguardano il monastero, la vita e gli interessi della comunità. La sala capitolare è un ambiente quadrato, suddiviso da due navate. La copertura si presenta a volta. Dopo la chiesa e il chiostro è certamente il luogo più importante per l’abbazia. In questa sala si conclude ogni giorno l’Ufficio di Prima con la lettura del Martirologio, con le rogazioni sui lavori dei campi e con la lettura di un capitolo della Regola di san Benedetto. Qui l’abate pronunzia i Sermoni alla comunità nei giorni festivi ed in occasioni particolari. In essa ha luogo il capitolo delle colpe durante il quale i monaci si accusano spontaneamente delle mancanze esterne e pubbliche contro la regola. Vi si svolgono anche le riunioni comunitarie per questioni riguardanti il monastero, come l’elezione dell’abate, l’ammissione al noviziato e alla professione dei consigli evangelici, gli acquisti e le vendite dei terreni e tutti i problemi di una certa importanza. Particolare fondamentale è il fatto che frontalmente alla sedia del priore e precisamente sul lato sinistro della porta di ingresso era inciso sulla pietra un simbolo molto antico e che ritroviamo nello stesso punto in tutte le chiese bernardiane: il labirinto di Salomone. Nella tradizione cabalistica ripresa dagli alchimisti, il labirinto svolgerebbe una funzione magica e sarebbe uno dei segreti attribuiti a Salomone è perciò che il labirinto è sempre presente nelle cattedrali e nelle abbazie, nel pavimenti spesso lo ritroviamo come una serie di cerchi concentrici interrotti, in modo da formare un tragitto bizzarro e inestricabile. Il labirinto di Salomone, secondo gli alchimisti sarebbe un’immagine dell’intero lavoro dell’opera, con le sue difficoltà, e la via da seguire per raggiungere il centro dove avviene il combattimento tra le due nature, e il cammino che l’artista deve percorrere per uscirne (Fulcanelli). Questa interpretazione si ricollegherebbe a quella delle dottrine ascetico-mistiche: concentrarsi su se stessi, attraverso i mille cammini delle sensazioni, delle emozioni e delle idee, sopprimendo ogni impedimento all’intuizione pura e ritornare alla luce senza smarrirsi nei giri del labirinto. L’andata e il ritorno nel labirinto sarebbe il simbolo della morte e della risurrezione spirituali. Il Priore quando doveva prendere qualche decisione aveva questo simbolo davanti con funzione di ispirazione. Il passaggio Il piccolo vano, a forma di corridoio che dal chiostro comunica con la parte esterna ad oriente dell’abbazia, è un ambiente di passaggio che si trova tra la sala capitolare e la sala dei monaci. Pur nelle sue modeste dimensioni doveva avere più destinazioni, tenendo presenti alcune disposizioni delle consuetudini. Prima di tutto costituiva il passaggio dei monaci dal chiostro ai terreni lavorativi situati entro le mura della clausura. Inoltre doveva costituire il luogo dove il Priore assegnava il lavoro giornaliero. Infine, secondo gli “Ecclesiastica Officia” doveva essere il luogo dove, in caso di necessità, si poteva conversare con i confratelli, con il Priore o con gli altri dignitari. La sala dei monaci, l’ultima parte del lato orientale del chiostro, è costituita da un ambiente comunemente denominato “sala dei monaci”. Le dimensioni sono molto variabili e dipendono quasi sempre dalla più o meno solida consistenza economica. Lo stile, semplice e severo, alle volte diventa imponente e maestoso per le sue inconsuete dimensioni. In genere la sala divisa da una o due serie di colonne che ne scandiscono gli spazi con un sorprendente rigore geometrico In questa sala i monaci svolgevano i lavori che non potevano essere eseguiti all’aperto, specialmente durante le piogge o la cattiva stagione. Essa serviva forse anche come luogo di incontro, sala di studio e, in alcuni casi come Scriptorium.

      Il dormitorio dei monaci La Regola di san Benedetto stabilisce alcune norme specifiche per il dormitorio, quando afferma: “Ciascun monaco dorma in un letto separato. Riceva l ‘occorrente per il letto conformemente all’uso monastico e secondo quando dispone l’abate. Se è possibile dormano tutti in un solo ambiente”. (Regola, cap. 22). Tutto il piano superiore, dalla sagrestia alla sala dei monaci, costituiva il loro dormitorio. Vi si accedeva sia dal transetto destro della chiesa che dal chiostro è una grande sala rettangolare. Le mura sono molto spesse, le volte pesanti, le finestre strette è rare servono a rendere meno fredda la sala durante le stagioni rigide.

       

      Il calefactorium

      Il lato Sud del chiostro inizia con il Calefactorium, cioè un ambiente riscaldato, munito di un grande camino dove i monaci vi si recavano prima di tutto nelle circostanze previste dagli “Ecclesiastica Officia”, nei giorni particolarmente freddi e durante gli intervalli dell’Ufficio divino notturno. Molto probabilmente, prima di andare a letto, i

      monaci sostavano in questa sala per riscaldarsi. Inoltre era frequentato dagli amanuensi per preparare gli inchiostri, le pergamene e sciogliere i colori per i lavori dello Scriptorium. Il lavabo La presenza di un corso d’acqua era una delle condizioni indispensabili per la scelta del luogo ove costruire un’abbazia. l’acqua veniva incanalata, oltrechè nella cucina e nei servizi, anche nel chiostro. Il lavabo è collocato nel lato del chiostro più vicino al refettorio, leggermente spostato verso l’ala dei fratelli conversi e di fronte all’ingresso del refettorio. doveva avere diversi getti d’acqua per permettere a più monaci di lavarsi contemporaneamente al mattino, di bere e di compiere le rituali abluzioni, secondo le disposizioni degli “Ecclesiastica Officia” e delle

      consuetudini. Il lavabo è circondato e coperto da un padiglione per riparare dal freddo o dalla pioggia.

       

      Il refettorio dei monaci

      I monaci devono prendere i pasti in comune nel refettorio. Per quanto riguarda il cibo la bevanda e l’ora dei pasti la Regola di san Benedetto ne determina anche i dettagli (Regola, cap. 39-41). Le consuetudini Cistercensi sono ancora più minuziose. La Regola prescrive la lettura durante i pasti, per cui è giustificata la presenza di un pulpito sul lato ovest, da dove i monaci lettori, a turni settimanali, leggevano la Sacra Scrittura o un libro spirituale, tradizione ancor oggi conservata. Nelle prime costruzioni delle abbazie cistercensi, seguendo la tradizione benedettina, il refettorio era parallelo al lato Sud del chiostro. Ma, in seguito con l’aumento del numero dei monaci, se ne cambiò l’orientamento costruendolo perpendicolarmente rispetto al chiostro. La nuova

      posizione permetteva, in caso di un ulteriore aumento, di prolungare facilmente la costruzione secondo nuove necessità. Dal punto di vista architettonico il refettorio si presenta senza pilastri centrali. La cucina La cucina, quasi sempre di dimensioni modeste, rispetto agli altri ambienti dell’abbazia, è situata accanto al refettorio dei monaci. Nessuno poteva accedervi se non i cucinieri di turno. Solo eccezionalmente, quando il calefactorium era spento, vi avevano accesso gli amanuensi per preparare gli inchiostri e le pergamene o il sagrestano per prendere il fuoco necessario agli usi liturgici cioè per l’incenso e per l’accensione delle candele, secondo le particolareggiate e numerosissime disposizioni raccolte in vari punti degli Ecclesiastica Officia. La distribuzione interna della cucina dipendeva dalla posizione del camino Sulla parete rispondente al refettorio dei monaci e su quella dei conversi si aprivano due finestre che servivano da passa-vivande.

       

      Il dispensarium

      Con il dispensarium inizia il braccio dell’abbazia riversato ai fratelli conversi. “Religiosi laici, vincolati a tutti gli obblighi fondamentali della vita religiosa, eccetto l’ufficio liturgico, e costituenti una classe a sè stante. Tutte le altre caratteristiche dello statuto dei conversi derivano da questi principi: i lavori manuali sono loro riservati proprio perchè non sono chierici e, quindi non preparati affatto ad attività intellettuali; e quella specializzazione in compiti materiali li esclude dal governo”. L’abitato dei fratelli conversi è separato dalla parete occidentale del chiostro da un corridoio detto passaggio dei conversi. Il dispensarium serviva come deposito, magazzino e sala di lavoro, per le molteplici attività che i conversi svolgevano all’interno del monastero.

       

      Il refettorio e il dormitorio dei conversi

      Un piccolo corridoio separava il dispensarium dal refettorio dei fratelli conversi che costituiva, in moltissimi casi, l’ingresso principale all’abbazia. L’analogia per quanto riguarda l’eleganza degli spazi, la semplicità e l’imponenza architettonica, della sala dei monaci con il dispensarium, del refettorio e del dormitorio dei monaci con il refettorio e il dormitorio dei fratelli conversi è sorprendente e significativa. La bellezza e la similitudine di questi luoghi non lascia intendere la profonda differenza giuridica che esisteva invece tra i due gruppi di religiosi per quanto riguarda invece il dormitorio

      gli spazi divisi in una serie di colonne. A Fossanova come abbiamo già detto la struttura esterna era munita di feritoie su tutto il lato di competenza dei templari in più alla cinta muraria che proteggeva tutto il complesso, di questo poco rimane con le successive ristrutturazioni.

  • La Porta Ermetica detta anche “Magica” o “Alchemica”

    e si attraversano i giardini di Piazza Vittorio Emanuele in Roma, ci si può imbattere, in un misterioso monumento situato presso l’angolo della piazza che fronteggia la chiesa di S. Eusebio. Tale monumento, è costituito da una cornice marmorea coperta di incisioni, e murato in un blocco di mattoni. Ai lati della cornice, ci sono anche due statue, queste però non fanno parte dell’opera originale sono state aggiunte in seguito e rappresentano il dio egiziano Bez. Questo monumento è la maggiore testimonianza epigrafica italiana di una delle scienze più antiche: l’Alchimia. La porta in questione non occupava originariamente il posto in cui la si vede adesso, essa incorniciava l’entrata secondaria nella cinta della villa del marchese Massimiliano Palombara. Appassionato cultore di scienze esoteriche e frequentatore assiduo del cenacolo di Cristina Alessandra, ex regina di Svezia, trasferitasi a Roma nella seconda meta del secolo XVII. Nel mezzo della villa si ergeva il “casino”, un piccolo padiglione da caccia che il principe aveva adibito a laboratorio alchemico. La storia della porta è avvolta dalla leggenda. Una mattina per il Portone del palazzo dei Palombara, che stava sulla Strada, la quale conduce da S. Maria Maggiore a S. Giovanni in Laterano, entrò un uomo vestito da Pellegrino, il quale si mise a girare, ed a guardare sul terreno, come cercasse qualche cosa. Fu visto da uno dei domestici del Marchese, che lo condussero al suo cospetto, Il pellegrino si presentò con un mazzetto d’erba nella mano. dicendo che cercava quell’erba che teneva in mano, e sapendo, che il Signore della villa si dilettava nell’Arte di far l’Oro, voleva mostrargli che l’opera era difficile ma non impossibile.

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      Il Marchese non esitò a mostrargli il Laboratorio, e il pellegrino trovò che l’operazione era sulla buona strada. Quindi abbrustolita, e polverizzata l’Erba, che aveva raccolta, la gettò nel crogiolo, ch’era pieno di materiale fuso, ed ordinò, che si lasciasse naturalmente estinguere il fuoco. Il Pellegrino si fece chiudere nella Stanza del Laboratorio, per osservare di quando in quando il lavoro, promettendo al marchese, che la mattina seguente gli avrebbe svelato l’Arcano. Il Marchese accettò anche perchè nulla aveva richiesto per la sua opera. La mattina, dopo il Marchese fece picchiare alla Porta, ma nessuno rispose. Aperta la Porta si scoprì, che il Pellegrino era uscito dalla Stanza da una Finestrella. Nel Laboratorio, il Crogiolo rovesciato sul pavimento, ed una striscia di materiale rappreso di color d’Oro. Che fatta saggiare, risultò esser Oro puro. Il Pellegrino però non mancò alla promessa di svelare l’Arcano. Sopra il tavolo del Laboratorio lasciò una Carta, in cui erano delineati, e scritti vari Enigmi. Il Marchese Massimiliano in memoria di un tale avvenimento, fece fare varie Iscrizioni nella Sala e nel muro esterno del Casino. Poi nel 1680 Ii fece incidere in marmo, parte sul Portone posto sulla Strada, e che riguardava l’erba, accennata sopra, e parte intorno ad una piccola Porta sulla Strada, incontro a S. Eusebio; e questi Enigmi, ed Iscrizioni sono le Ricette per la manifattura dell’Oro. Le epigrafi che il Marchese Palombara fece apporre in vari punti della sua villa a ricordo dei fatti sopracitati, si dividono in sei gruppi. Cinque di essi sono andati perduti. Il sesto è quello scolpito sulla Porta in questione.

      Ci sembra indispensabile indagare sulla figura del “Pellegrino” ospitato dal Marchese Palombara, affinchè non resti troppo leggendario. Si tratta di una personalità che era in realtà ben conosciuta, sia nella penisola che in altre parti d’Europa. Il suo nome era: Francesco Giuseppe Borri, era figlio di un medico, nacque a Milano il 4 maggio 1627; studiò a Roma, presso i Gesuiti, finchè non venne cacciato per disobbedienza il 16 marzo 1649. In seguito, accolto in Vaticano, studiò scienze naturali (soprattutto medicina) ed Alchimia. Ma anche qui non non resistette molto, intollerante ai dogmi e ai metodi terapeutici fu espulso e segnalato al sant’uffizio. Morto Innocenzo X (1655), sotto il pontificato del quale era stato anche ricercato dalla giustizia, e salito al soglio pontificio Alessandro VII, ancora più avverso a tutte le innovazioni, decise di andarsene da Roma (a poco prima della partenza, nell’autunno del 1656, risale la sua visita al Marchese Palombara, che forse, appena lo vide, intuì la sua vera identità).

      Riparato a Milano per qualche tempo, vi fondò un cenacolo medico e alchemico. Fu in seguito costretto poi a fuggire in Svizzera a causa dell’arresto (1659) di alcuni suoi seguaci processati dall’Inquisizione, che per salvarsi la vita abiurarono (26 marzo 1661). II Borri si era già messo in salvo ma era già in cattiva luce per aver discusso il dogma della Santa Vergine. Non riuscendo a catturarlo il 2 ottobre1660, fu condannato in contumacia ordinando il rogo della sua “effigie” (in mancanza di lui) e dei “suoi scritti”. Intanto, il Borri, si era rifugiato nei paesi protestanti dimorando prima a Strasburgo, poi a Francoforte, Dresda, Lipsia, ed infine ad Amsterdam (dove resterà sei anni). Lì, a detta dei biografi, pervenne al culmine della fortuna e della notorietà: La sua stima aumentò tanto che molti nobili anche della Francia, e della Germania facevano a gara per incontrarlo, sentendosi Onorati di conoscere un uomo, che guariva ogni sorte di malattia, per arte incognita. Il senato della città, di Amsterdam per le eccezionali benemerenze, giunse a donargli la cittadinanza. Ma da lì sarebbe dovuto fuggire presto (1664) a causa dei debiti contratti e delle calunnie dei medici locali. Giunto a Copenaghen ebbe la protezione del re Federico III che lo sovvenzionò per i suoi esperimenti di trasmutazione. Ad Amburgo aveva incontrato l’ex regina Cristina di Svezia. Intorno al 1669 fece ritorno a Copenaghen e lì Federico III gli concesse le più alte onorificenze e lo fece proprio consigliere e ministro. Alla morte del suo protettore (19 febbraio 1670), cui successe Cristiano V a lui ostile, L’alchimista lascio la Danimarca per riparare in Turchia. Ma a Goldingen, in Moravia, fu arrestato e imprigionato per ordine dell’imperatore d’Austria Leopoldo II che lo consegnò al pontefice Clemente X. Il Borri fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo. Da qui uscì due anni dopo perchè la pena di morte fu commutata in “carcere perpetuo” dopo “L’abiura pubblica” da scontare nella chiesa della Minerva, in una cella del Santo Uffizio, in cui restò segregato fino al 1678. In quella data l’ambasciatore di Francia, duca d’Estrees, che era stato guarito dal Borri, intercesse per lui fino a farlo ritrasferire in Castel Sant’Angelo. Li gli furono assegnate due stanze con sotterranei affinchè ricostituisse un laboratorio alchemico.

      Ottenne anche la libera uscita dal forte così da poter attendere meglio ai suoi studi e alla professione di medico. L’elezione a pontefice di uno dei più implacabili persecutori del Borri, il cardinale Antonio Pignatelli (Innocenzo XII), segnano il tramonto definitivo dell’astro del “pellegrino”. Rinchiuso di nuovo e con rigore (1691) nella roccaforte papale, l’alchimista vi muore di malaria il 13 agosto del 1695. Molti studiosi hanno stigmatizzato il Borri come un avventuriero, assimilandolo spesso al personaggio di Cagliostro, ma la levatura dei due è completamente diversa. Francesco Borri che fu uno dei più esperti seguaci della scuola di Paracelso, personaggio che ricordava anche nel suo carattere insofferente, fu filosofo sottile e mistico tenace, ma soprattutto fu medico competente. Nessuno mise mai in dubbio la sua competenza “ippocratica” e soprattutto la gratuità delle cure. I guai con la legge gli derivarono dall’eresia, dal dubitare di alcuni dogmi cattolici, e di aver scritto in proposito, numerosi libri, sempre con l’inquisizione alle calcagna. L’accanimento dell’Inquisizione fu terribile, più volte gli fu alleggerito il carcere e altrettante volte fu sottoposto a rigore. Devastanti furono soprattutto gli anni passati nella cella sotterranea del sant’Uffizio, sotto la chiesa della Minerva. Nessun altro eretico fu mai sottoposto ad un trattamento del genere. I numerosi salvacondotti reperibili negli archivi del castello testimoniano il continuo andirivieni di malati di ceto sociale elevato e di tutti coloro che, finchè fu in vita, vollero sperimentarne la perizia terapeutica e il suo consiglio.

      Un trattamento piuttosto inconsueto per un personaggio che si è cercato di far passare per un semplice imbroglione. Da notare inoltre la tenacia con cui anche sotto la prigionia cercò di ricostruire il proprio laboratorio alchemico. Questo era dovuto al fatto che il Borri praticava una medicina spagirica, e necessitava pertanto di un laboratorio alchemico/chimico per produrre i suoi farmaci. E questo accadeva in un momento in cui la medicina ufficiale usava come unico metodo di cura i salassi e i clisteri, per ogni tipo di malattia.

      Le iscrizioni di Villa Palombara, e in particolare le epigrafi incise sulla Porta Ermetica, sono il suo testamento spirituale che come un prodigioso “pentacolo” condensa nei suoi pochi metri di marmo le molteplici facce di un’unica realtà iniziatica.

  • Pitagora e Pitagorismo

    La simmetria è morte, l’asimmetria è vita e creazione.

    La Basilica sotterranea è situata nel Piazzale Labicano, fuori Porta Maggiore qui nel muro di sostegno della ferrovia è l’ingresso attuale alla basilica. Il suo ingresso vero non è stato ancora esplorato. La costruzione è inglobata a 18 metri sotto il piano della ferrovia Roma-Napoli. La Basilica sotterranea Neopitagorica è stata edificata nella seconda metà del I secolo a.C., Il Neopitagorismo a Roma è databile dal III secolo a.C., la massima fioritura nell’Urbe si ha dal I secolo a.C. e termina ufficialmente nella metà del I secolo d.C. a seguito dell’Editto di Costante (341 d.C.). L’edificio fu fatto costruire dal Triumviro M. Licinio Crasso, all’interno dei suoi possedimenti; in questa stessa zona fece costruire anche un Tempio a Minerva Medica, nè stata infatti ritrovata la statua col serpente ai piedi, insieme a molte altre. La zona era adibita a necropoli ed al culto, e gli Horti erano appartenuti alla Gente Statilia, con cui Licinio Crasso intrecciava rapporti di parentela. Il misticismo degli Statilii era ben noto e confermato anche dal ritrovamento di un’urna funeraria con raffigurazioni del Culto Eleusino e dall’appellativo di “Mystes” dato ad un loro Liberto ed ad un loro figlio deceduto. Inoltre Cicerone (“De nat. deor. II 61″) sull’Esquilino avanti Porta Prenestina (Porta Maggiore) Atilio Calatino aveva fatto elevare un Tempio alla divinità “SPES” (La Speranza) che diede il nome alla contrada “ad Spem veterem”. La Basilica Pitagorea. Questa preziosa costruzione basilicale sotterranea, fu edificata per volere ed esigenza di un gruppo di 28 Aristocratici Fratelli, (tale era il numero indispensabile per erigere un tempio pitagoreo), appartenenti ad una Agape Neopitagorica che annoverava tra gli adepti anche il Senatore Statilio Tauro, oltre al Senatore Publio Nigidio Pigulo che ne fu il fondatore.

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      Publio Nigidio Figulo, era un politico e grande erudito. Scrisse di grammatica, astrologia e di teologia. La prima Agape neoplatonica a Roma, fu fondata da lui. Va rilevato che nella navata sinistra, contro il pilastro centrale, sono modellati a stucco due profili di teste o ritratti, e nel pilastro della navata destra è effigiato un terzo ritratto. Il dato appare singolare in un Luogo Misterico; è probabile che i ritratti appartengano ai Neopitagorici che furono i promotori della costruzione della Basilica. L’elevazione della Basilica è attuata in una epoca in cui storicamente avviene la penetrazione, a Roma, della dottrina filosofico-misterica-pitagorica. Questo per merito, tra gli altri, di Scipione l’Africano, e trova nel poeta e filosofo Ennio, il banditore dell’etica e del Pensiero di Pitagora. Tra il 298 e il 290 a.C. era stata infatti eretta nel Foro Romano una statua a Pitagora, come “al più savio di tutti i Greci”, distrutta nel 181 a.C. con l’approvazione del Senato, su proposta del Pretore Q. Petilio, dopo la scoperta, sotto il Gianicolo, di sette libri che trattavano di filosofia e dottrina pitagorica.

      La Basilica PitagoreaIl contenuto dei rotoli attribuiti a Numa, venne ritenuto sovvertitore della religione di Stato, e perciò, gli scritti furono bruciati nel Foro, davanti al Popolo. Oltre al filosofo Ennio ed a Cicerone, nel periodo della passione mistica, il grande teorizzatore della corrente filosofico-misterica neopitagorica a Roma fu Posidonio di Apamea che fuse su basi filosofiche il dualismo Dio-Natura, Anima-Corpo, contrapposto al monismo provvidenziale e fatalista degli Stoici. Veniamo ora alla descrizione del luogo: La Basilica è preceduta da un Vestibolo a pianta quadrata, (metri 4 x 4), con un lato leggermente più corto con pavimento a tasselli bianchi e neri ed un pozzetto al centro. Nella parete a nord si apre un corridoio di accesso che sale ad angolo retto verso il piano di campagna (rimasto conglobato parzialmente nel muro attuale costruito nel 1951/52, che isola la Basilica dal lato nord). Le pareti sono decorate da stucchi e da pitture, mentre le copertura, che è a volta a tre vele e anch’essa decorata, presenta un lucernario che ora è occluso ma serviva a dare luce all’aula basilicale attraverso una apertura situata sopra l’ingresso che immette nella Basilica, illuminando la navata centrale (orientamento est-ovest). L’illuminazione solare dal lucernario, avveniva verso il tramonto, in coincidenza con l’inizio dei Lavori Pitagorici, investendo alle spalle gli Adepti che erano rivolti ad est verso l’abside. Si ritiene che l’apertura esterna del Lucernario avesse anche una funzione Rituale, in quanto utilizzata per le Iniziazioni. L’iniziato entrava in quello che simboleggiava una “grotta sotterranea” per compiere i Viaggi Rituali, nella “Casa della Filosofia”. La Basilica è a pianta rettangolare (metri 12 x 9 circa) con tre navate a volta a botte, divise da tre pilastri per parte, su cui insistono quattro archi a sesto ribassato. All’ingresso, sul pavimento, è tracciata la superficie dell’Ara Rituale; in fondo vi è un’abside di metri 1,50 di raggio (nel mezzo si notano i segni della cattedra del Magister), alla base c’è un vano dove furono trovati i resti ossei di un maiale e di un cane. Presso i pitagorici, non era ammesso il sacrificio di animali, in ragione della credenza nella reincarnazione (Metempsicosi), anche se nella decadenza alcuni Neopitagorici lo accordarono solo per il maialino da latte (contaminazione del culto di Persefone) e per i galletti (Pecudes), Il sacrificio del maiale (Robigalia) è legato al rito purificatore del Luogo, e quello del cane era come una cintura protettiva contro gli spiriti del male, in base alle Leggi che servivano di norma per tutte le fondazioni di Templi o luoghi di Culto elevati fuori le mura di Roma. La Basilica sotterranea è orientata da est (Abside) ad ovest (vestibolo). All’atto del ritrovamento non presentava tracce di decadenza o di lenta manomissione, ma piuttosto l’aspetto di abbandono a seguito di un decreto di confisca o proibizione.

      La Basilica Pitagorea Secondo alcuni studiosi, l’abbandono del Luogo di Culto da parte dei Neopitagorici, è avvenuto a seguito del suicidio del Senatore Statilio Tauro (53 a.C.) che preferì darsi la morte invece di attendere la condanna imperiale davanti a Claudio. L’accusa di “riti magici”, fu tramata dalla moglie di Claudio, Agrippina, che aveva interesse al possesso degli Horti Tauriani situati nella zona Esquilina, a confine con il Castro Pretorio. La confisca degli Horti Tauriani avvenne però in favore del Demanio Imperiale. La decorazione della Basilica è stata eseguita a stucchi da artigiani esperti, aventi quali soggetti alcuni argomenti tratti dalla mitologia greca, con significati analogici ai concetti pitagorici. Gli stucchi, di pregevole fattura e qualità iconografica, stanno disposti sulla volta del Vestibolo, della navata centrale, lungo le pareti delle due navate laterali disposti su cinque fasce sovrapposte, sui pilastri e sulle pareti brevi contigue all’abside. Qui nell’abside si trova, a destra, Saffo con la Lira che scende da uno scoglio (una Saffo idealizzata, il cui mito significa la liberazione dell’anima dal peso della materia attraverso il processo di purificazione per entrare nella vita ultraterrena), a sinistra in alto, Apollo con l’arco e in mezzo, nel mare, un La Basilica PitagoreaTritone che tiene steso un drappo ricurvo per ricevere Saffo sospinta da un Erote, per trasportarla sull’acqua, dove è presente un secondo Tritone che regge con la sinistra sulla spalla un grande remo e soffia una buccina; su un secondo scoglio, un giovane dal torso inclinato si regge la guancia poggiandola sul palmo della mano. Al disotto del catino dell’abside una Vittoria alata con palma e corona. Scene di ratto, Amorini, Candelabri e Vittorie, poi Attis (simbolo dell’oltretomba), Baccanti, Meduse, Nereidi, Grifoni, Sfinge, Dionisio, Demetra, Ercole, Dioscuri, Ganimede, Leucippidi, scene di Palestra e di Scuola (Iniziatiche), scene campestri, la liberazione di Esione, palmette, oranti, e infine l’Aquila. Il Tema simbolico ed emblematico del grande anno, di origine antichissima, e sviluppato dai Pitagorici dice che l’Anima umana è emanazione del Sole, che al Sole deve ritornare dopo il ciclo delle nascite e delle morti e l’Aquila è il veicolo sul quale compirà l’ultimo viaggio. All’Aquila è anche associata una Corona, premio per la Lotta della Vita; la tiene l’Aquila che per mezzo di Essa raggiunge nel Sole il Premio della Vittoria. Il Sole sarà il trampolino di lancio per tornare al Dio “inconoscibile” la nostra dimora originaria. Nella tradizione mitriaca questo compito è svolto dal corvo, così come nelle tradizioni estremo orientali. All’interno della basilica sono raffigurate 28 urne come una sorta di percorso iniziatico, una specie di “via crucis”. Le 28 urne raffigurate, sono divise in quattro gruppi e rappresentano i fondamentali Viaggi Iniziatici ai quali sono riferiti i motivi degli stucchi sopracitati: 1) la Morte; 2) l’Iniziazione; 3) la Salvezza; 4) l’lmmortalità.

      La Basilica PitagoreaLa Basilica è sotterranea perché conforme alla Ritualità e alla Tradizione pitagorica. Pitagora, sbarcato nella Magna Grecia, aveva cominciato il suo percorso iniziatico scavando una grotta, dove vi si era rinchiuso, dichiarando, dopo che ne fu uscito, di essere disceso nell’Ade. La Grotta sotterranea dell’isola di Samo era definita dallo stesso Pitagora la “Casa della Filosofia”. La forma architettonica della Basilica è connessa alle ragioni neopitagoriche. Un’attenzione particolare merita l’impianto architettonico-planimetrico. Nel pavimento, la decorazione alla base dei sei pilastri, del perimetro dell’Ara l’incassatura delle quattro mense e le sezioni dei pilastri, evidenziano un tracciato e un allineamento “Asimmetrico”, che non è deformazione ottico-prospettica, ma uno sviluppo progettuale determinato secondo la Geometria Pitagorica, riferita alla “Sezione Aurea” e al “Rettangolo Aureo”. La Sezione Aurea e il Rettangolo Aureo, avevano un ruolo nello sviluppo delle linee architettoniche e di tracciato nelle progettualità egiziane (Piramide di Cheope), greche (la facciata del Partenone), della Magna Grecia (Tempio di Cerere a Pestum) e dell’antica Roma (pianta del Pantheon). Questi schemi geometrici erano proporzionali a risultati numerici e al più perfetto esempio del corpo umano; trasposizione nel campo della forma geometrica del concetto di Macrocosmo (Universo) e di Microcosmo (l’Uomo).

      La Basilica Pitagorea Per i Pitagorici l’Uomo era associato al Pentagramma Stellato o Stella a cinque punte; oltre che come Simbolo Misterico, divenne oggetto di analisi geometrico-numerica. L’asimmetria planimetrica riscontrata nelle tre navate è il prodotto Armonico della Sezione Aurea, mentre la planimetria complessiva (Basilica e Vestibolo) è il prodotto Geometrico del Rettangolo Aureo applicati dagli Architetti Neopitagorici. La basilica era edificata sulla base dei numeri sacri che traducono in termini geometrici i principi della Creazione. Questo sistema asimmetrico non era usato qui la prima volta, lo ritroviamo nel tempio di Luxor in Egitto, dove la deviazione dell’asse di costruzione simboleggia inoltre la voluta rottura di simmetria tra due realtà dello spirito e della materia. Anche le cattedrali gotiche vennero costruire secondo le regole della Divina Proporzione, del numero d’oro. Quegli apparenti piccoli errori come il non perfetto allineamento della navata con il coro sono ora spiegabili, ed inoltre era sottolineata la rottura tra la navata, luogo di credenza, e il coro luogo di conoscenza. Pitagora affermava che la simmetria è morte, e l’asimmetria è vita e creazione.

      La basilica rappresenta quindi un inno alla vita ed al creato. C'è chi ha sostenuto che l’asimmetria della colonne sia dovuta al fatto chè si è usato un metodo costruttivo particolare, scavando nel tufo una sorta di trincee usate poi come stampo o casseforme per il getto delle murature.

      La Basilica Pitagorea Possiamo rispondere che queste asimmetrie sono rilevabili solo qui e che questo sistema sarebbe andato bene per calcestruzzo e cemento armato, ma i romani non usavano questi metodi, bensì mattoni e muri a tufo. Per quanto attiene alla Ritualità, che si svolgeva nella Basilica, essa consisteva di varie fasi che però cominciavano sempre con riti di purificazione ed Abluzioni, come è dimostrato dalle incassature nei pilastri che contenevano sei anfore (raffigurate in stucco sulle navatelle, con accanto una palma e, un ramoscello per aspersione).

      I Neopitagorici si riunivano in Agape Fraterna in onore a Zeus Soter (patrono di ogni Esistenza), Ercole (la Forza della Natura), ai Dioscuri (l’Armonia dell’Universo), consumando in fraterna compagnia: vino, pane, focacce, legumi e carne di animali sacrificati (il porcellino da latte e i galletti), ad esclusione di fave, pesci, uova e visceri. Nella Basilica queste Agapi si svolgevano sulle quattro mense che stavano tra i pilastri, di cui, nel pavimento, è rimasta l’incassatura. Piccole mense dalla forma di quelle raffigurate negli stucchi; dovevano sedere a mensa non più di sette Fratelli per mensa, e cioè in tutto 28 (numero caro a Pitagora) che corrisponde alle 28 tombe raffigurate a stucco sulle pareti.

      La Basilica Pitagorea Oltre alle Agapi si sviluppavano esercizi e pratiche rituali. Il più giovane degli Adepti leggeva un brano relativo alla Filosofia Neopitagorica; seguiva una libagione di vino e un discorso, tenuto dal Magister (seduto in Cattedra, Posta nell’abside) a chiusura dei Lavori, che riassumeva i Precetti Pitagorici: rispetto della Vita, astensione dalla Violenza, obbedienza alla Legge, amore del Prossimo, adorazione delle Divinità. L’abside rappresenta e riassume la Meta Finale della Vita di ogni Uomo Libero e di Buoni Costumi, in particolare la Vita e la prassi misterica del Neopitagorico, che rende I’uomo divino e degno di assurgere al concilio degli Dei. La ragione e i sensi non sono le uniche fonti della cognizione dell’Uomo; tra anima e corpo vi è un netto dualismo: la sede naturale dell’anima è quella celeste, alla quale, dopo un periodo più o meno lungo passato nel “carcere” corporeo, essa deve ritornare. Dunque, una filosofia misterica la cui penetrazione e diffusione in Roma, è databile al III secolo a.C, ma la cui massima fioritura si ha dal I secolo a.C. alla prima metà del I secolo d.C. La Basilica sotterranea Neopitagorica di Porta Maggiore si configura quindi come lo splendido Tempio al Pensiero di Pitagora.