La Porta Magica di Roma

La Porta Ermetica detta anche “Magica” o “Alchemica”

e si attraversano i giardini di Piazza Vittorio Emanuele in Roma, ci si può imbattere, in un misterioso monumento situato presso l’angolo della piazza che fronteggia la chiesa di S. Eusebio. Tale monumento, è costituito da una cornice marmorea coperta di incisioni, e murato in un blocco di mattoni. Ai lati della cornice, ci sono anche due statue, queste però non fanno parte dell’opera originale sono state aggiunte in seguito e rappresentano il dio egiziano Bez. Questo monumento è la maggiore testimonianza epigrafica italiana di una delle scienze più antiche: l’Alchimia. La porta in questione non occupava originariamente il posto in cui la si vede adesso, essa incorniciava l’entrata secondaria nella cinta della villa del marchese Massimiliano Palombara. Appassionato cultore di scienze esoteriche e frequentatore assiduo del cenacolo di Cristina Alessandra, ex regina di Svezia, trasferitasi a Roma nella seconda meta del secolo XVII. Nel mezzo della villa si ergeva il “casino”, un piccolo padiglione da caccia che il principe aveva adibito a laboratorio alchemico. La storia della porta è avvolta dalla leggenda. Una mattina per il Portone del palazzo dei Palombara, che stava sulla Strada, la quale conduce da S. Maria Maggiore a S. Giovanni in Laterano, entrò un uomo vestito da Pellegrino, il quale si mise a girare, ed a guardare sul terreno, come cercasse qualche cosa. Fu visto da uno dei domestici del Marchese, che lo condussero al suo cospetto, Il pellegrino si presentò con un mazzetto d’erba nella mano. dicendo che cercava quell’erba che teneva in mano, e sapendo, che il Signore della villa si dilettava nell’Arte di far l’Oro, voleva mostrargli che l’opera era difficile ma non impossibile. Il Marchese non esitò a mostrargli il Laboratorio, e il pellegrino trovò che l’operazione era sulla buona strada. Quindi abbrustolita, e polverizzata l’Erba, che aveva raccolta, la gettò nel crogiolo, ch’era pieno di materiale fuso, ed ordinò, che si lasciasse naturalmente estinguere il fuoco. Il Pellegrino si fece chiudere nella Stanza del Laboratorio, per osservare di quando in quando il lavoro, promettendo al marchese, che la mattina seguente gli avrebbe svelato l’Arcano. Il Marchese accettò anche perchè nulla aveva richiesto per la sua opera. La mattina, dopo il Marchese fece picchiare alla Porta, ma nessuno rispose. Aperta la Porta si scoprì, che il Pellegrino era uscito dalla Stanza da una Finestrella. Nel Laboratorio, il Crogiolo rovesciato sul pavimento, ed una striscia di materiale rappreso di color d’Oro. Che fatta saggiare, risultò esser Oro puro. Il Pellegrino però non mancò alla promessa di svelare l’Arcano. Sopra il tavolo del Laboratorio lasciò una Carta, in cui erano delineati, e scritti vari Enigmi. Il Marchese Massimiliano in memoria di un tale avvenimento, fece fare varie Iscrizioni nella Sala e nel muro esterno del Casino. Poi nel 1680 Ii fece incidere in marmo, parte sul Portone posto sulla Strada, e che riguardava l’erba, accennata sopra, e parte intorno ad una piccola Porta sulla Strada, incontro a S. Eusebio; e questi Enigmi, ed Iscrizioni sono le Ricette per la manifattura dell’Oro. Le epigrafi che il Marchese Palombara fece apporre in vari punti della sua villa a ricordo dei fatti sopracitati, si dividono in sei gruppi. Cinque di essi sono andati perduti. Il sesto è quello scolpito sulla Porta in questione.

Ci sembra indispensabile indagare sulla figura del “Pellegrino” ospitato dal Marchese Palombara, affinchè non resti troppo leggendario. Si tratta di una personalità che era in realtà ben conosciuta, sia nella penisola che in altre parti d’Europa. Il suo nome era: Francesco Giuseppe Borri, era figlio di un medico, nacque a Milano il 4 maggio 1627; studiò a Roma, presso i Gesuiti, finchè non venne cacciato per disobbedienza il 16 marzo 1649. In seguito, accolto in Vaticano, studiò scienze naturali (soprattutto medicina) ed Alchimia. Ma anche qui non non resistette molto, intollerante ai dogmi e ai metodi terapeutici fu espulso e segnalato al sant’uffizio. Morto Innocenzo X (1655), sotto il pontificato del quale era stato anche ricercato dalla giustizia, e salito al soglio pontificio Alessandro VII, ancora più avverso a tutte le innovazioni, decise di andarsene da Roma (a poco prima della partenza, nell’autunno del 1656, risale la sua visita al Marchese Palombara, che forse, appena lo vide, intuì la sua vera identità).

Riparato a Milano per qualche tempo, vi fondò un cenacolo medico e alchemico. Fu in seguito costretto poi a fuggire in Svizzera a causa dell’arresto (1659) di alcuni suoi seguaci processati dall’Inquisizione, che per salvarsi la vita abiurarono (26 marzo 1661). II Borri si era già messo in salvo ma era già in cattiva luce per aver discusso il dogma della Santa Vergine. Non riuscendo a catturarlo il 2 ottobre1660, fu condannato in contumacia ordinando il rogo della sua “effigie” (in mancanza di lui) e dei “suoi scritti”. Intanto, il Borri, si era rifugiato nei paesi protestanti dimorando prima a Strasburgo, poi a Francoforte, Dresda, Lipsia, ed infine ad Amsterdam (dove resterà sei anni). Lì, a detta dei biografi, pervenne al culmine della fortuna e della notorietà: La sua stima aumentò tanto che molti nobili anche della Francia, e della Germania facevano a gara per incontrarlo, sentendosi Onorati di conoscere un uomo, che guariva ogni sorte di malattia, per arte incognita. Il senato della città, di Amsterdam per le eccezionali benemerenze, giunse a donargli la cittadinanza. Ma da lì sarebbe dovuto fuggire presto (1664) a causa dei debiti contratti e delle calunnie dei medici locali. Giunto a Copenaghen ebbe la protezione del re Federico III che lo sovvenzionò per i suoi esperimenti di trasmutazione. Ad Amburgo aveva incontrato l’ex regina Cristina di Svezia. Intorno al 1669 fece ritorno a Copenaghen e lì Federico III gli concesse le più alte onorificenze e lo fece proprio consigliere e ministro. Alla morte del suo protettore (19 febbraio 1670), cui successe Cristiano V a lui ostile, L’alchimista lascio la Danimarca per riparare in Turchia. Ma a Goldingen, in Moravia, fu arrestato e imprigionato per ordine dell’imperatore d’Austria Leopoldo II che lo consegnò al pontefice Clemente X. Il Borri fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo. Da qui uscì due anni dopo perchè la pena di morte fu commutata in “carcere perpetuo” dopo “L’abiura pubblica” da scontare nella chiesa della Minerva, in una cella del Santo Uffizio, in cui restò segregato fino al 1678. In quella data l’ambasciatore di Francia, duca d’Estrees, che era stato guarito dal Borri, intercesse per lui fino a farlo ritrasferire in Castel Sant’Angelo. Li gli furono assegnate due stanze con sotterranei affinchè ricostituisse un laboratorio alchemico.

Ottenne anche la libera uscita dal forte così da poter attendere meglio ai suoi studi e alla professione di medico. L’elezione a pontefice di uno dei più implacabili persecutori del Borri, il cardinale Antonio Pignatelli (Innocenzo XII), segnano il tramonto definitivo dell’astro del “pellegrino”. Rinchiuso di nuovo e con rigore (1691) nella roccaforte papale, l’alchimista vi muore di malaria il 13 agosto del 1695. Molti studiosi hanno stigmatizzato il Borri come un avventuriero, assimilandolo spesso al personaggio di Cagliostro, ma la levatura dei due è completamente diversa. Francesco Borri che fu uno dei più esperti seguaci della scuola di Paracelso, personaggio che ricordava anche nel suo carattere insofferente, fu filosofo sottile e mistico tenace, ma soprattutto fu medico competente. Nessuno mise mai in dubbio la sua competenza “ippocratica” e soprattutto la gratuità delle cure. I guai con la legge gli derivarono dall’eresia, dal dubitare di alcuni dogmi cattolici, e di aver scritto in proposito, numerosi libri, sempre con l’inquisizione alle calcagna. L’accanimento dell’Inquisizione fu terribile, più volte gli fu alleggerito il carcere e altrettante volte fu sottoposto a rigore. Devastanti furono soprattutto gli anni passati nella cella sotterranea del sant’Uffizio, sotto la chiesa della Minerva. Nessun altro eretico fu mai sottoposto ad un trattamento del genere. I numerosi salvacondotti reperibili negli archivi del castello testimoniano il continuo andirivieni di malati di ceto sociale elevato e di tutti coloro che, finchè fu in vita, vollero sperimentarne la perizia terapeutica e il suo consiglio.

Un trattamento piuttosto inconsueto per un personaggio che si è cercato di far passare per un semplice imbroglione. Da notare inoltre la tenacia con cui anche sotto la prigionia cercò di ricostruire il proprio laboratorio alchemico. Questo era dovuto al fatto che il Borri praticava una medicina spagirica, e necessitava pertanto di un laboratorio alchemico/chimico per produrre i suoi farmaci. E questo accadeva in un momento in cui la medicina ufficiale usava come unico metodo di cura i salassi e i clisteri, per ogni tipo di malattia.

Le iscrizioni di Villa Palombara, e in particolare le epigrafi incise sulla Porta Ermetica, sono il suo testamento spirituale che come un prodigioso “pentacolo” condensa nei suoi pochi metri di marmo le molteplici facce di un’unica realtà iniziatica.